Archivio Storico
" ... i resti di quello che fu uno dei più
potenti eserciti del mondo risalgono in disordine
e senza speranza le valli che avevano disceso con
orgogliosa sicurezza ..."
(Gen Armando Diaz, Dal Bollettino della
Vittoria - 4 novembre 1918)
Maresciallo Armando Diaz, Generale di Stato Maggiore
1. È morto Delfino Borroni, l'ultimo
reduce italiano della Grande Guerra (26
ottobre 2008)
Aveva 110 anni e da anni viveva nella casa di riposo Don Guanella
a Castano Primo, nel Milanese
2. Corsi e ricorsi dei ghiacciai: riemerge il
supercannone della Grande Guerra (12 agosto
2003)
L'effetto del disgelo porta alla luce un gigantesco cannone di
33 quintali della Prima guerra in alta Vai Nardis: lo Skoda10,4 di fabbricazione
austriaca.
3. L'ultimo
Fante della Grande Guerra: "Non dimenticate il nostro sacrificio" (1 novembre 2003)
Intervista a Carlo Orelli, 109 anni, soldato dal 1915 ed
ultimo fante
E'
morto Delfino Borroni, l'ultimo reduce della Grande Guerra
Corriere della Sera del 26 ottobre 2008
Delfino Borroni |
CASTANO PRIMO (Milano) Si è spento oggi, a 110 anni appena compiuti, Delfino Borroni, lultimo reduce italiano della Grande Guerra e lultimo cavaliere di Vittorio Veneto, lonorificenza istituita dalla Repubblica nel 1968 per «esprimere la gratitudine della Nazione» a tutti coloro che avevano combattuto sul fronte durante la prima guerra mondiale per almeno sei mesi. Borroni era nato il 23 agosto del 1898 a Turago Bordone, in provincia di Pavia, ma da anni viveva nella casa di riposo Don Guanella a Castano Primo, nel Milanese, dove si era trasferito dopo il matrimonio.
CAPORETTO - Nel 1917, a diciannove anni, fu arruolato di leva nei bersaglieri ciclisti. Da allora combattè sul fronte dellaltopiano di Asiago, poi sul Pasubio e infine a Caporetto, dove visse lesperienza delle trincee. Proprio a Caporetto fu fatto prigioniero, ma dopo qualche settimana riuscì a fuggire e a unirsi ad un battaglione italiano a cavallo. Finita la guerra, nel 1918 riprese a fare il meccanico, poi si sposò e si trasferì a Castano Primo, dove fu assunto come macchinista sul Gamba de Legn, lo storico tram milanese. Dopo la sua scomparsa, al mondo restano solo altri sette reduci del primo conflitto mondiale: tre in Gran Bretagna, due in Canada (tra cui una donna, Gladys Power, di 109 anni), uno in Australia, uno negli Stati Uniti.
TESTIMONIANZA «Caporetto è stato il posto peggiore che ho visto durante la guerra» aveva sempre dichiarato il bersagliere, che grazie alla memoria vivissima in questi anni ha confidato le sue memorie a decine di storici, provenienti da tutto il mondo. «La vita in trincea era terribile ricordava Borroni - Il freddo, la fame, il rombo delle granate, poi cerano gli attacchi con il gas. Quando pioveva, poi, si aveva la tentazione di dormire, ma quello era il momento in cui un attacco era più facile, allora il capitano passava, con indosso il suo cappello nero e ci urlava di stare allerta». A Caporetto, il fante rischiò di morire. «Il sergente mi disse di uscire a vedere la situazione fuori dalla trincea. Io gli chiesi perché mandava a morire me che ero il più giovane e lui mi rispose che tutti gli altri avevano figli» raccontava il bersagliere. «Allora uscii strisciando, ma un proiettile mi colpì subito sullo scarpone. Mi finsi morto accanto a due cadaveri di altri soldati e quando gli austriaci se ne andarono, raggiunsi i miei compagni in ritirata. Il sergente mi prese la testa sulle ginocchia e pianse». Dopo qualche settimana, Delfino fu catturato. «Una volta, in prigione, cominciai a urlare, volevo scrivere alla mia famiglia che da sette mesi non aveva notizie spiegava il veterano - Lufficiale austriaco mi rispose: "io è da dieci anni che non torno a casa", ma poi mi diede un foglio e una penna». Qualche mese dopo, la fuga. Dopo un giorno di marcia, alla sera, nella prigione, anche lufficiale romeno di guardia crollò dal sonno. Delfino fuggì e si unì a un battaglione italiano a cavallo, poi prese un treno che lo portò a Piacenza. Da lì, scrisse ai genitori, che lo raggiunsero. «Stavo riposando in una tenda, alzai gli occhi e vidi gli scarponi di mio padre. Mia madre lanciò un urlo così forte, che quasi mi moriva fra le braccia». I suoi racconti si trovano anche in Rete.
Delfino Borroni: 25 agosto 2008
ONORI MILITARI -La data delle esequie non è stata ancora fissata, ma molto probabilmente al fante saranno riservati gli onori militari, o addirittura i funerali di stato. A Castano Delfino Borroni viveva con i suoi figli, Angelo e Pinuccia e tredici pronipoti.
Giovanna Maria Fagnani
Corsi e ricorsi dei ghiacciai:
riemerge il supercannone della Grande Guerra
Corriere della Sera del 12 agosto 2003
Lo Skoda10,4 austriaco sotto il Monte Bot
Riemerso dai ghiacci a 3.178 metri in alta Vai Nardis
Inquadramento Storico
La zona di Nardis, ove il cannone è stato ritrovato a
seguito dell'enorme scioglimento dei ghiacci, complice l'eccezionale caldo dell'estate
2003, fa parte della zona della Presanella; può dunque venire incluso nella sezione
relativa all'Adamello- Presanella- Passo Tonale. Tale tratto rappresentava allora
parte del Fronte con l'Impero Centrale visto che il Trentino, che in quella zona ha i
propri confini con la Lombardia, era in mano agli Austriaci. Per approfondimenti si veda
la sezione Il Fronte e la Prima linea: tratto
Livigno-Laghi Cancano- Stelvio- Ortles- Cevedale- Pizzo- San Matteo; la zona
AdamelloBrenta, rappresenta infatti l'utimo tratto del Fronte di cui si da notizia nella
sezione del sito indicata.
Articolo
"Un gigantesco cannone di 33 quintali della Prima guerra
mondiale è emerso dai ghiacci a 3.178 metri in alta Vai Nardis. Lo Skoda10,4 di
fabbricazione austriaca era posizionato su una selletta sosto il Monte Bot ieri, da cui
batteva lepo stazioni italiane del Pian di Neve. Con la fusione del ghiaccio il pezzo è
scivolato una trentina di metri sotto la cresta e si trova attualmentesu un ripida pendio,
esposto alle frane di sassi.
Un elicottero del Servizio ansincendi di Trento tenterà oggi di recu perarlo. L
operazione è condotta dal Se,vizio beni culturali della Provincia autonoma di
Trento, con la collabdrazione scientifica del Museo della guerra bianca in Adamel lodi
Temù e del Museo storico italiano della guerrcs di Rovereto. Ri trovamenti come questo si
sono fat ti sempre più frequenti negli ultimi ventanni. Le estati più calde han no
fatto dei nostri ghiacciai dei free zer con la porta dimenticata aper ta, dove tutto fonde
inesorabilmente. Per meglio comprendere questi eventi occorre ricostruire landamento
climatico degli ultimi centanni. L'invemo 1916lifu pro babilmente il più nevoso del
XX Secolo: al Tonale caddero 50 metri di neve. Seguirono stagioni sempre più calde e
secche, soprattutto nei primi anni Venti. I decenni successivi ebbero un andamento
contraddittorio, comunque sfavorevole al bilancio di massa dei ghiacciai. Poi dal 1965 a
partire dalle Alpi Occidentali prese il via una fase più fresca, che culminò nella
breve, ma significativa avanzata dei ghiacciai nel biennio 197778. Successi vamente, il
ritiro ha ripreso inesora bile e, dalla fine degli anni Novan ta, con una velocità senza
prece denti. Oggi, dopo quasi tre mesi in cui lo zero termico è rimasto co stantemente
sopra i 4000 metri, i bacini nevosi delle Alpi versano in condizioni pietose. Fusa da
tempo la neve stagionale, a essere intaccato è ora il "capitale" del
ghiacciaio. L estate 2003 sarà per i ghiacciai la peggiore annata che si ricordi.
Al punto che molti ghiacciai alpini so no diventati deifossili climatici residui di
condizioni meteorologiche ormai tramontate. impossibile dire se si tratti di un processo
senza ritor no. Nel Medioevo si ebbero almeno due periodi secolari in cui i ghiacciai
raggiunsero dimensioni injèriori alle attuali. Le oscillazioni. continuarono fino alla
metà del XVlsecolo, quando iniziò la cosid detta "Piccola età glaciale", che
regalò ai pionieri dellalpinismo lo spettacolo incomparabile dei ghiac ciai nella
loro massima espansione in epoca storica. Oggi si parla di global warming e di
tropicalizzazione. Eppure nelle Ande meridionali sembra che i ghiacciai abbiano ripreso ad
avanzare. Il pianeta si scalda, ma gli effetti non sono prevedibili. Insomma, i giochi del
clima mondiale sono ancora tutti aperti"
Franco Brevini
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L'Ultimo
Fante della Grande Guerra
"A 109 anni vi racconto la mia Guerra, non dimenticate il nostro
sacrificio"
"... ci portarono al fronte e cominciò l'inferno ..."
(Carlo Orellli, classe 1894)
La Carlo Orelli, 109 anni, in primo piano
sdraiato
"Voi non avete la minima idea del suono che fa un obice austriaco da 420".
Lui sì. "E' tutto diverso da quello che immaginate". Gli rimbomba nelle
orecchie da quasi un secolo. Aveva vent'anni. Ne ha 109. Il decano della Grande Guerra.
"Non è come nei film. Il cannone non fa: bum. Troppo distante dalle trincee. Il
cannone fa piuttosto un brontolio, un rombo lontano, poi un sibilo sempre più forte, più
vicino. Il proiettile sta per arrivare. A volte non espiode subito. Altre volte non
esplode mai. E' la lotteria della morte. Un mio amico di Napoli si era sempre salvato
proteggendosi dentro un tubo di cemento. Spuntavano solo le gambe. Centrate da una
cannonata. E' morto dissanguato".
Carlo Orelli è la voce più antica, la memòria più remota della Prima guerra mondiale.
Voci che si stanno spegnendo. Restano in Italia poche decine di cavalieri di Vittorio
Veneto. Alcuni sono donne, crocerossine della Carnia. Altri sono ragazzi nati nel 1900,
che non spararono un colpo. I combattenti non sono che un pugno.
Carlo Orelli è l'unico che possa raccontare il 24 maggio 1915 da soldato. "La guerra
era un finto segreto. Sapevano tutti che sarebbe stata dichiarata. Io ero di leva, a
Capua, in fanteria. Ci portarono a Napoli, e dall in treno verso il fronte. Terza Armata,
brigata Siena, 320 reggimento, 3a compagnia. L'ordine era di avanzare con cautela in
territorio austriaco. Sagrado. L'Isonzo. Il Carso. Il nemico si era ritirato. Entravamo
nelle case vuote, chi aveva preso le piattole cercava vestiti di ricambio, a volte vestiti
da donna. I combattimenti scoppiarono presto. L'avanzata si fermò nell'estate.
Cominciarono gli assalti. Il massacro della trincea delle frasche".
La sua famiglia ha fatto tutte le guerre d'Italia. Il nonno materno, Tommaso, con i
difensori di Perugia, insorta e domata nel 1849 dai mercenari papalii. Il padre Gabriele
richiamato per la campagna d'Abissinia. Il fratello maggiore Alfredo combattente nel 1911
in Libia. Il fratello minore Guglielmo chiamato alle armi dal Duce e fatto prigioniero
dagli inglesi in Sicilia nel luglio '43. A Perugia Carlo Orelli nasce il 23 dicembre 1894.
Entra a scuola nell'anno dell'assassinio di Re Umberto. Si trasferisce a Roma nell'anno
della guerra russogiapponese. "La sorella di mia madre aveva una trattoria in via del
Viminale. Io ero operaio aggiustatore meccanico, quando mi chiamarono. Nessuno va alla
guerra volentieri. Quella però non era una guerra di conquista. Era una guerra
patriottica. Nella mia brigata c'erano soldati di ogni parte d'Italia, contadini del Sud
che non sapevano né leggere nè scrivere, ma non si lamentavano mai. Morivano in
silenzio". I più coraggiosi, "i sardagnoli", i sardi.
Contro la trincea delle frasche si sgretola il meglio dell'esercito italiano. "Un
giorno siamo usciti all'assalto in 330. Siamo tornati in 30. Non so come mai a me non è
toccata. La sera prima dell'attacco portavano in prima linea il liquore, ma io non l'ho
mai bevuto. Quella roba faceva passare la paura ma toglieva lucidità, dopo ti buttavi
avanti urlando 'Savoia!, e morivi. Dall'altra parte urlavano "Hurrah!', e morivano.
Io avevo un altro modo per darmi coraggio. Non pensare a niente. Svuotare la testa. Non
pensare mai alla casa, agli affetti, agli amori. Non scrivevo, anche perché non c'era
tempo. Un giorno ho incontrato mio fratello Alfredo, ci siamo salutati, non l'ho più
pensato sino alla fine, l'ho rivisto a casa, ferito ma salvo.
Dovevo restare lucido per avere un colpo in più del nemico. Il fucile degli
austriaci sparava cinque proiettili; il nostro, sei. La vita era legata al sesto
proiettile".
Quarto piano senza ascensore di una vecchia casa alla Garbatella. Uno degli angoli più
appartati di Roma. Carlo Orelli ha il cranio lucido e gli occhi blu. Sorride di rado. I
suoi tiatti ricordano quelli di Gustavo Rol. "Mi hanno sempre detto che ho gli occhi
magnetici. Nessuno in famiglia ha i miei occhi, tranne Angela, la figlia di mio nipote
Carlo". Sui mobili ci sono le foto dei sei figli, tutti vivi, da Lia di 83 anni a
Lucia di 68, in mezzo Alfredo, Marcella, Lillana e Marià, che oggi gli è al fianco. Nove
nipoti, undici pronipoti, tra cui Christian, miilitare di carriera, che presto lo renderà
trisnonno.
Abbiamo fatto tutti la guerra senza amarla, ma anche senza far storie. Attorno alla Grande
Guerra c'erano grandi passioni e grandi personaggi, nelle retrovie passava il re sull'auto
scoperta, arrivava la notizia del volo di D'Annunzio su Vienna, si annunciava un proclama
del comandante della nostra Armata, il Duca d'Aosta, su Cadorna si leggevano poesie. Gli
idealisti arrivavano al fronte e il giorno dopo morivano, Nel mio reggimento c'era Filippo
Corridoni". Caduto davanti alla trincea delle frasche il 23 ottobre 1915. Una terra
maledetta, cui i fanti davano nomi sinistri, Passo della morte, Buca dei bersaglieri,
Sassi rossi, e ancora Ridottino dei morti. "Della guerra colpisce che tutto succede
di colpo. Un momento dormi, mangi, ridi; un momento dopo non ci sei piu. Un mio amico era
appoggiato a un muretto. Parlava. E' arrivato il rombo, è arrivato il sibilo. La granata
gli ha staccato la testa di netto. Il corpo è rimasto li, dritto, innaturale".
Eppure è con orgoglio che Carlo Orelli parla della sua guerra. Soliecita le domande con
il linguaggio del secolo in cui è nato, "seguiti pure a interrogarmi". Se Maria
gli chiede di non affaticarsi la manda a fare una commissione, "ma per uscire
copriti bene". Non si rifugia in luoghi comuni quando parla degli ufficiali, "i
generali non si vedevano, gli altri però moriva non come noi. Il fango? Le
malattie? Niente, in confronto all'assalto". Un'espressione bellissima per definire
il rapporto con il nemico,
"odio involontario". "Ci sparavamo addosso, eravamo legati alla nostra
bandiera, alla nostra divisa, ma non c'era astio ideologico, non c'era volontà di
annientamento. Ognuno sapeva che l'altro stava facendo il proprio dovere. Le trincee erano
lontane duecento metri ma noi avevamo l'ordine di non sparare: l'accordo tacito era di far
tacere i cecchini, di non mole starci nelle pause tra i combattimenti.
Quando riuscivamo a conquistare una trincea austriaca la trovavamo piena di
sigarette, vino, pure cioccolata; i prigionieri ce la offrivano, noi avevamo la
disposizione di rifiutare, si temeva una trappola, un avvelenamento; così si faceva
assaggiare la cioccolata a un prigioniero, poi si faceva a mezzo". "Fino a
quando non toccò a me. Gli austriaci si erano trincerati nel parco di una tenuta
nobiliare. Assalto. Non arrivammo mal al reticolati. Una mitragliatrice ci prende
d'infilata, le mitragliatrici non si vedono mai, si sentono solo, l'artiglieria aggiusta
il tiro. Una granata uccide il comandante della compagnia, il tenente Occhipinti, e
ferisce molti di noi. Muore il mio migliore amico, Ercolanoni, umbro come me. I compagni
continuano a sparare, ma così si fanno individuare dagli austriaci. Ci tirano addosso
come al tiro a segno. Il sottotenente sdraiato accanto a me ha una pallottola in fronte.
Io ho schegge in tutto il corpo e una ferita di striscio all'orecchio sinistro, un
centimetro più in là e sarei spacciato. Mi portano indietro a braccia, in un casolare.
Poi all'ospedale da campo, quindi a Bologna, a Perugia. La mia guerra è finita. Il resto
è un'idea sfumata di medicine, odori, letti bianchi, convalescenza. Ricordo bene i versi
che studiavo a scuola da bambino, non ricordo nulla della malattia. La gamba destra mi fa
ancora male. Non è mai guarita".
La guerra è una croce di ferro, esposta in una teca, accanto al diploma di
cavaliere di Vittorio Veneto con la flrmata da Saragat e a una vecchia tessera del Psi,
ancora con falce e martello. "Sono sempre stato socialista. Nenniano. Avevo orrore
per il fascismo. Ma sarei bugiardo se dicessi che sono stato un oppositore. Semplicemente,
non ero d'accordo. Non ho mai preso la tessera, non ho mai preso botte. Sono inorridito
quando a Roma arrivarono i tedeschi. Ma ero già nonno, cosa potevo dire? Dopo il congedo
mi avevanco trovato un posto a Gaeta, alla direzione di artiglieria, dove ho conosciuto
mia moglie Cedilia. Poi sono tornato a Roma, capotecuico dell'Atac. Ho badato ai miei
pensieri, non mi sono mai arrabbiato troppo, ho cercato di avere buoni rapporti con le
persone che incontravo. Cecilia se nè andata nel '69. Mi aspetta al Verano".
"Dalla guerra non ho avuto alcun vantaggio. L'unica pensione che ricevo
è quella dell'Atac. Ma non ho certo combattuto per un vantaggio, per nulla che non fosse
il mio Paese. E a Trieste alla fine ci siamo arrivati. Poi il mio Paese pian piano si è
dimenticato di noi. Un po' lo capisco, è passato così tanto tempo. Dei miei vecchi
fratelli d'arme, di tutti questi ragazzi che vede nella foto della mia compagnia, non è
rimasto nessuno. E' cambiato tutto, c'è l'Europa, i nemici sono alleati, in Austria i
miei nipoti vanno senza passaporto, a sciare. Vedo però che il presidente Ciampi è
attento a queste cose. Lo stimo perché èuno di noi, ha passato quasi tutte le peripezie
del secolo, ha combattuto pure lui una guerra, e non lo nasconde. Spero che vorrà
ricordarsi anche del 4 novembre, dell'anniversario della vittoria, per cui si è
sacrificata la mia generazione".
La trincea della frasche fu presa dalla brigata Sassari il 14 novembre 1915.
Nei primi sei mesi l'Italia perse 270 mila uomini tramorti e feriti. Oggi non ci sono
superstiti, tranne lui. "Ero un uomo molto forte. Avevo una forza incredibile. Adesso
non faccio un passo senza Valentina, la signora ucraina che mi guarda. Se Valentina non mi
sostiene, crollo. Chissà quanto dura ancora. Qui alla Ciarbateila non c'è nessuno che ha
l'età mia". Nessuno in tutta Europa, forse. Arriva il momento in cui ci si dice: il
più vecchio sei tu. Verrà li momento in cui non ci sarà più nessuno a custodire la
memoria, e la Grande Guerra sarà solo degli accademici e degli archivisti. Neppure la
memoria è un vantaggio. Ci scusi il signor Carlo se abbiamo risvegliato la sua.
"Sono io che mi scuso se non ho detto tutto. Ci sono cose che non ricordo. Ci sono
cose che non voglio ricordare".
Aldo Cazzullo
Carlo Orelli: l'ultimo fante della Grande Guerra
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Il Bollettino della Vittoria Italiana
Gen. ARMANDO DIAZ
Bollettino militare in cui si enuncia la vittoria sul nemico; 4 novembre 1958
Scarica il Il bollettino della Vittoria italiana in formato
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Conseguenze della Battaglia del Piave
Gen. ARMANDO DIAZ
Dal discorso tenuto alla Scala il 24 giugno 1923 per la
celebrazione della Vittoria del Piave.
Ai primi di luglio, dopo giorni di durissima lotta in terreno paludoso e difficile, il nemico sgombrava il territorio di foce Piave vecchio e Piave nuovo. Così le nostre linee venivano integralmente rìstabìhte come avanti I offensiva. Ma più ancora delle perdite materiali contano in guerra quelle morali, e per gli Imperi Centrali la disastrosa sconfitta sul Piave fu un avvenimento decisivo. E poichè si era perduta la speranza nella vittoria, scomparve il più forte vincolo fra quelle nazionalità; gli interessi particolari delle singole stirpi ebbero la prevalenza e si iniziò quel processo di disgregazione della Monarchia asburgica, che, col crollo dellesercito, doveva poi avere il colpo di grazia a Vittorio Veneto. Mi venne riferito più tardi che, allannuncio dellesito della battaglia del Piave, il capo del Governo di uno degli alleati della Germania esclamasse: "E finita, non vi è più speranza di vincere ! ".
Con giustificata fierezza si può dunque proclamare
che la battaglia del Piave fu decisiva per la sorte della guerra mondiale, come quella di
Vittorio Veneto ne fu la risolutiva. Di chi il vanto? Lo disse il Comando italiano quando
potè annunziare la disfatta nemica: " Il vanto è di tutti i combattenti, di
tutti i comandi, di tutte le armi, di tutti i marinai, di tutti gli avierì ". Vanto
di tutti come di tutti era stata la fede, di tutti il cimento, di tutti il sacrificio! A
tutti vada il pensiero della Patria riconoscente. Ma soprattutto sia vanto degli umili,
che dalla lotta nulla trassero se non la serena coscienza del più alto dovere compiuto, e
dalla gloria solo la luce delle anime loro, e dalla Patria non onori o ricchezze, ma la
intima purissima gioia di sapersi devoti artefici della sua grandezza! Ricordo a questo
punto come, tra le rovine fumanti di uno dei nostri paeselli del Piave si trovassero
miracolosamente ancora ritti due muri, su uno dei quali era scritto con rozzi caratteri:
" Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati!" e sullaltro: " Meglio
vivere un giorno da leone che cento anni da pecora! ". Io sentii pertanto
nello spirito dellignoto scrittore un simbolo della stirpe, palese su tutte le vie
della gloria e su tutti i calvari del dolore.
Ma la battaglia del Piave, grandiosa nel suo sviluppo e nelle sue
conseguenze, aspettava il suo epilogo. Infatti, dopo quattro mesi, il 24 ottobre,
lEsercito nostro si lanciava nella grande battaglia di redenzione. Quelle ore
solenni, che valgono tutta una vita, videro il Grappa ancora sanguinosamente attanagliato,
il Piave sorpassato di slancio, il centro nemico sfondato, la manovra di avvolgimento
possente ed irresistibile, lavversario sgominato, il crollo, Vittorio Veneto! I
resti di quello che era stato uno dei più potenti eserciti del mondo risalivano in
disordine e senza speranza le valli già discese con orgogliosa sicurezza!
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Mario Ravasi è
Membro Web Banner Italia